Le guerre non sono “umanitarie”

Le guerre non sono “umanitarie”

Trapela ora che il “suicide bomber” targato ISIS che ha compiuto l’attentato era stato liberato pochi giorni prima dalle prigioni afghane.

In un paese che si sgretola, si rompono le dighe della legalità e i peggiori criminali sono messi in condizione di agire i loro tristi propositi. Alcuni degli attuali leader talebani, come il mediatore Abdul Ghani Baradar hanno passato anni nelle prigioni pakistane, altri a Guantanamo, come il futuro ministro della difesa Abdul Qayyum Zakir. Sopra la testa del comandante Khalil Haqqani oggi tra i leader più eminenti, pende una taglia USA di cinque milioni di dollari. La bandiera nera dell’emirato è tornata a sventolare sul parlamento di Kabul. In una tale situazione le donne che si sono ribellate alla schiavitù dei loro clan e che sono ancora nascoste nei rifugi, minacciano di suicidarsi collettivamente. In tale situazione decine di migliaia di persone, cui i talebani hanno giurato vendetta, tremano nell’ombra.

Dopo gli affrettati Accordi di Doha, siglati per ragioni elettorali dal Presidente Trump, i talebani hanno mirato a rifarsi il look. Accordi con le fondamenta di argilla, dai quali erano stati esclusi sia il governo legittimo, sia gli alleati occidentali. Usciti di lì, i talebani si sono dipinti come patrioti, salvatori dell’Afghanistan intenti a riportare ordine e prosperità. In realtà attentati e crimini che per venti anni hanno portato la loro firma sono cessati quando gli studenti coranici hanno raggiunto il loro fine. Si tratta di assassini seriali, strateghi degli infiniti attacchi contro i civili che hanno funestato la capitale. Attentati e omicidi mirati di esponenti della società eletti a metodo. Attentati, tra cui quello dello scorso maggio in cui perirono 55 studentesse hazara, attribuiti negli ultimi mesi alla stella nascente dell’ISIL KP (Islamic State of Iraq and the Levant – Khorasan Province), frazione locale dell’ISIS, teoricamente in conflitto con l’Emirato. Ed ora contro ogni pronostico e dichiarazione occidentale, i talebani sono al potere.

Il fatto è che sono pochissimi a pensare che i lupi si siano tramutati in agnelli. I talebani hanno compreso che per evitare il collasso economico hanno bisogno di sostenere l’economia, di tecnici, di mercati di riferimento e per tale ragione hanno stretto accordi con Cina e Russia, il nemico di ieri. A Kabul sono inoltre presenti i fidati consiglieri pakistani, impegnati in un nuovo capitolo del gioco diplomatico che ha visto il Pakistan sostenere i talebani e mantenere contemporaneamente l’alleanza con gli USA. Sulle aberrazioni della guerra a stelle e strisce, sono appena usciti gli “Afghan paper” per i tipi del New York Times. Improvvisazione, mancanza di strategia, grossolani errori politici, ma soprattutto la volontà di mantenere altri criminali al potere, i “Signori della guerra”, che avevano insanguinato il paese dopo il ritiro dei sovietici.

Poche persone, prima degli accordi di Doha, avrebbero potuto pensare che i talebani sarebbero tornati al potere. È come se a venti anni di distanza, nel 1965, nel nord d’Italia si fosse materializzata la Repubblica di Salò. Nessuno oltre a quanti l’hanno vissuto, possono comprendere la disperazione di coloro che avevano combattuto l’integralismo dopo l’arrivo dei contingenti internazionali. La determinazione di affrontare con mogli e bambini la calca e il caos dell’aeroporto di Kabul, sapendo di avere poche probabilità di farcela e di rischiare la morte. Ma anche una piccola possibilità appariva in quegli istanti un’alternativa migliore alla rassegnazione di ritornare della mannaia talebana.

Non ci consola essere sempre stati i sostenitori che le guerre non potessero essere “umanitarie”, che fosse sbagliato tentare di esportare la democrazia con le truppe, l’attuale evidenza che avessimo ragione. Di fatto il movimento pacifista internazionale ha subito una decisiva battuta di arresto dopo la seconda Guerra del Golfo, con il divenire prevalente dell’opzione militare su quella diplomatica. Un quadro in cui le ONG si sono trovate ad affrontare delle contraddizioni significative, rischiando di venire percepite come la parte umanitaria delle invasioni militari. Un equivoco, che è stato disvelato dall’esito dell’avventura occidentale in Afghanistan. Il metodo delle ONG non è mai stato, non può essere, né mai sarà, complementare a quello degli eserciti.

PH: Filippo Rossi