La speranza in fondo al cuore

La speranza in fondo al cuore

Febbraio è l’unico mese dell’anno in cui il paesaggio lunare lungo la strada tra Gerusalemme a Gerico si tinge di verde pallido. Quest’inverno è stato particolare, con precipitazioni particolarmente generose, tanto che le colline color sabbia si sono ricoperte di uno strato di vegetazione di un colore più intenso del solito. Mentre guido verso Al Khan Ahmar noto alcune donne beduine in lontananza che raccolgono erbe selvatiche, per loro che del deserto sanno sfruttare ogni raro e prezioso frutto, immagino che siano giorni speciali di inaspettata abbondanza.

Parcheggio nell’area di sosta di Al Oj, il cartello marrone la segnala come punto panoramico, per me però è da sempre, anzi lo è da quando esiste la Scuola di Gomme, il punto in cui lascio la macchina per incamminarmi verso il villaggio. Da mesi all’entrata del parcheggio e all’imbocco della pista in terra battuta per raggiungerlo ci sono due grosse sbarre gialle di ferro: qui, come in molti altri villaggi palestinesi, fanno parte del paesaggio, basta un ordine militare per chiuderle e così isolare in pochi minuti intere comunità. A Khan Al Ahmar è successo spesso nell’ultimo anno, ma oggi sapevo che l’avrei trovata aperta, cammino lungo la pista in terra battuta fino al tunnel tramite il quale si attraversa la strada e poi risalgo sull’altro lato. Due bimbe mi salutano sorridenti e curiose, gli zaini in spalla, sono appena uscite da scuola e si incamminano verso casa. Nella grande tenda all’entrata del villaggio ci sono due anziani e un giovane, mi salutano con un gesto della mano, dico che vado alla ‘madrasa’ e mi rispondono ‘ahlen’ – benvenuta – come se andare a far visita alla scuola fosse normale: in effetti lo è, ormai da mesi sono abituati a ricevere visite quasi quotidianamente. Poco più sopra, di fronte all’entrata, sventolano alcune bandiere, segno della solidarietà dei tanti attivisti internazionali che da mesi presidiano la scuola.

So che Abu Khamis, il portavoce del villaggio, è in viaggio negli Stati Uniti per parlare di cosa sta accadendo a Khan Al Ahmar e negli altri villaggi beduini in area C, tutti a rischio di demolizione. Per questo stavolta non faccio tappa nella sua tenda dove mi sono seduta spesso per ascoltarlo insieme ai tanti gruppi di persone che ho avuto la fortuna di accompagnare in Palestina. Entro direttamente nel cortile della scuola per passare a salutare Halima, la direttrice, che trovo impegnata con alcune insegnanti a dirigere dei piccoli lavori di manutenzione. Il vento e la pioggia forti dei giorni scorsi hanno fatto cadere l’insegna e due alunni sul tetto seguono le istruzioni della direttrice per fissarla in modo stabile. Mi fa piacere sentire che la mia presenza non richiede necessariamente il rituale del tè, benché lo adori apprezzo essere accolta senza convenevoli, mi fa sentire di casa. E soprattutto è bello trovare la scuola immersa nella sua normale attività, gli alunni dalle classi mi lanciano qualche sguardo, ma senza distrarsi troppo ritornano subito con l’attenzione a quello che stanno facendo. Halima mi racconta che va tutto bene, non ci sono stati né soldati né coloni nell’ultimo periodo, come l’ultima volta in cui l’ho incontrata, lo scorso novembre, sembra positiva e orgogliosa del fatto che nessun bimbo abbia abbandonato la scuola, che l’attività didattica proceda quasi regolarmente. So che lei guarda con gli occhi di chi non vive nella comunità e che per le famiglie beduine è molto più duro e difficile affrontare la vita quotidiana a Khan Al Ahmar, la totale incertezza sul futuro, la pressione costante, tra visite dei soldati e soprusi dei coloni, bulldozer che di tanto in tanto arrivano per spianare nuovi accessi al villaggio in preparazione della demolizione, camionette della polizia che presidiano la zona di continuo. Eppure la vita va avanti e la scuola c’è ancora, nonostante tutto. Un piccolo grande miracolo…

Entro in seconda dopo aver chiesto il permesso alla maestra di inglese. C’è una verifica e, man mano che terminano, gli alunni vanno ad uno ad uno alla cattedra per correggere il compito con la maestra. Sono al solito incuriositi dal telefono con cui li riprendo dopo aver ottenuto il loro consenso e alcuni esplicitamente mi chiedono quasi gridando di fotografarli. Sura! Sura! in arabo fotografia, ripetono soprattutto i maschietti, mentre le bimbe sono meno a loro agio di fronte all’obiettivo. Diventa un gioco quello di fotografarli e fargli vedere le buffe facce che ho scattato, ridiamo insieme senza fare troppo rumore. Poi approfitto per rimanere qualche minuto a osservare la classe in silenzio, mi piace guardare e ascoltare cosa succede, mi emoziona essere testimone di un normale giorno di scuola e trovo in quell’essere semplicemente a scuola una bellezza profonda.

Non so quanto durerà, sono anni che ce lo chiediamo, eppure nonostante la demolizione sia ormai da mesi un ordine esecutivo e le intenzioni del governo israeliano siano più che chiare, in giornate come questa una speranza in fondo al cuore non riesco a non sentirla. In questi giorni una pioggia miracolosa ha fatto diventare verde il deserto, non riesco a non pensare che forse anche tutto il lavoro di questi anni, la solidarietà di migliaia di cittadini del mondo, il tam tam della stampa daranno frutti insperati.

Serena Baldini
Vento di Terra ONG