Profughi siriani, non se ne parla più
Per le migliaia di turisti occidentali che ogni anno sbarcano all’aeroporto Queen Alia di Amman, la Giordania rappresenta le tombe nella roccia rosata di Petra, i monoliti e il mito di Lawrence d’Arabia nel deserto di Wadi Rum, il colonnato della piazza ovale del sito romano di Jerash. Ma per le centinaia di migliaia di rifugiati dalla vicina Siria che dal 2012 alimentano un flusso ininterrotto di ingressi in Giordania, il Paese è altro: è fuga dalla guerra che ha distrutto la loro terra, è la speranza di poterci un giorno ritornare.
Ovviamente in Italia non se ne sa nulla. Meglio blaterare di “salvataggio della razza bianca” dalle minacce dei migranti, giusto per incassare qualche voto in più e per distogliere l’attenzione da un dramma umanitario epocale che, peraltro, non porta voti.
Non si sa, infatti, che i siriani fuggiti all’estero nei paesi limitrofi sono 5,48 milioni, quelli sfollati internamente sono 6,5 milioni. Tutti si sono sobbarcati viaggi pericolosi ed estenuanti con decisioni prese dalla sera alla mattina, perché si sono trovati la casa bombardata e quasi sempre con le poche cose che avevano indosso hanno intrapreso il viaggio. Molti sono arrivati con mezzi finanziari molto limitati e hanno difficoltà a soddisfare i loro bisogni primari. Chi inizialmente poteva contare su qualche risparmio o sul sostegno delle famiglie ospitanti ha ora sempre più bisogno di aiuto. Il 93% dei rifugiati siriani vive al di sotto della soglia di povertà.
Secondo le stime dell’Unhcr, l’alto commissariato ai rifugiati delle Nazioni unite (aggiornate al 2 gennaio 2018), in Giordania vivono attualmente in esilio oltre 655.624 uomini, donne e bambini. Circa l’80% di loro vive fuori dai campi ufficiali, mentre oltre 130.000 hanno trovato rifugio nei campi formali di Zaatari e Azraq.
Questi campi, realizzati dall’Unhcr sull’onda dell’emergenza sono, visti da lontano perché non è possibile entrarci (se non con uno speciale permesso del governo giordano), un ammasso di prefabbroicati bianchi in un territorio desertico e pietroso, come gran parte della Giordania, enormi lager dove si vive della distribuzione di food e di una piccola somma di denaro, dove i più fortunati riescono a trovare qualche forma di lavoro sottopagato in agricoltura, dove pochi nuclei familiari esercitano una gestione di tipo mafioso su tutto ciò che avviene nelle zone da loro controllate. E dove le fasce più deboli, donne e bambini, sono sottoposti ad angherie, violenza e sopraffazione. (Nella foto qui sotto, una parte del campo Unhcr di Azraq).
E così migliaia di loro (si parla di oltre 20 mila secondo stime non ufficiali) sono usciti dai questi campi e – pur non possedendo il privilegio d’esser profughi ma quello, riconosciuto dall’Onu e non dal governo giordano, di “richiedenti asilo” – hanno costituito i cosiddetti campi informali. Qui nuclei di famiglie allargate, spesso composte da parenti e vicini di casa della cittadina o del villaggio di origine, hanno cominciato a ricostruire una parvenza di comunità, al cui centro sta la famiglia. I contadini siriani si offrono per un salario minimo e il diritto di accamparsi nel terreno degli agricoltori. Così ecco spuntare tende a fianco di serre e campi coltivati.
In questo contesto i bambini sono, come sempre, l’anello più debole. Senza un’identità, trattati male e non considerati dagli adulti, spesso costretti a lavorare per aiutare la famiglia, molti di loro sono scresciuti senza conoscere altro che la guerra, come ha ricordato l’alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati Filippo Grandi.
Per loro la ong italiana Vento di Terra ha avviato dal 2014 il progetto del centro educativo di Mafraq, in collaborazione con la ong giordana Jordan Relief Organization e il sostegno della Tavola Valdese e di altri organismi italiani.
Al centro educativo, una palazzina che avrebbe bisogno di consistenti interventi di manutenzione, fanno riferimento circa 200 bambini dei campi informali del governatorato di Mafraq. Qui sei insegnanti siriani e giordani, con il supporto di due psicologhe e di alcuni operatori di sostegno, partecipano al programma di formazione per consentire a questi ragazzi di poter accedere alla scuola pubblica giordana recuperando il gap iniziale (molti di loro hanno interrotto per qualche anno di frequentare la scuola). Qui, come afferma Hussein, l’insegnante di inglese, «stiamo cercando di costruire un futuro per il nostro Paese, perché se è vero che i bisogni primari sono importanti, la cultura lo è altrettanto. Stiamo gettando un seme per il futuro». I sei insegnanti in questi mesi stanno lavorando senza stipendio, perché il progetto ha esaurito per il momento i fondi in attesa del rifinanziamento. Ma ognuno di essi ha la consapevolezza dell’importanza di quanto sta facendo. La loro serenità e la loro forza d’animo cela storie terribili. Come quella di Wafa’ Ayoubi, psicologa, che in Siria si adoperava per aiutare i feriti dei bombardamenti, ha auto un figlio morto mentre combatteva per la resistenza, e per salvare gli altri figli è arrivata in Giordania. Con Vento di Terra si dedica ad attività di sostegno educativo e sanitario presso le comunità dei campi informali.
Mahmoud Sadaqa, invece, in Giordania dal 1967, è un commerciante palestinese, oggi in pensione, che dedica a Vento di terra il suo tempo per far giocare e divertire i bambini siriani. Arriva nei vari campi, con il suo multicolore costume da clown e inventa giochi. «La felicità è resistenza – dice Mahmud – e tutti noi abbiamo il diritto di sorridere. Le persone oltre al cibo, alle bevande, alla salute e alle proprietà hanno bisogno di rispetto, amore e cura». Anche, o forse ancore di più, quando le condizioni i cui vivi direbbero il contrario.
Perché la peggiore crisi umanitaria di tutti i tempi, secondo quanto affermato dall’Unhcr, non sembra ancora essere finita. Gli interrogativi sono ancora molti su una definitiva cessazione del conflitto, tanto più che gli interessi dei diversi Paesi nell’area mediorientale divergono sempre di più, complice l’Occidente. La questione palestinese rischia di infiammare nuovamente l’area, dopo le prese di posizione di Trump su Gerusalemme; il contrasto tra sciti e sunniti coinvolge le mire egemoniche dei due maggiori paesi antagonisti in Medio Oriente, Iran e Arabia Saudita, il gioco della Turchia è ambivalente, e intanto ha invaso la regione curda. E in mezzo ci sono loro, i milioni di siriani che vedono allontanarsi sempre di più la data in cui potranno ritornare nelle loro città. Tanto più che la magggior parte di loro è disposta a tornare solo con precise garanzie di sicurezza, perché c’è un altissimo rischio di rappresaglie da parte del governo di Hassad.
Anche per questo motivo, l’attività in Giordania di Vento di Terra («un piccolo guscio di noce» rispetto alle grandi ong) va sostenuta. L’avamposto del centro educativo di Mafraq non deve essere chiuso. Perché questo è il suo destino, se non arriveranno nuovi fondi in tempi rapidi.
Fabrizio Gomarasca
Giornalista – content editor