La sindrome di Kabul

La sindrome di Kabul

 

Ricordo la straordinaria impressione che nell’autunno del 1979 fece la notizia dell’invasione dell’Afghanistan da parte dei sovietici. Che interesse poteva avere il gigante eurosiatico a prendere possesso di un paese così arretrato e integralista? In realtà la sorte dell’Afghanistan è legata sia alla composizione etnica, sia alla sua posizione geografica. Un caleidoscopio di etnie, frutto delle numerose invasioni e stanziamenti, a partire dalle armate macedoni di Alessandro. Dunque gli afghani, che abitano un paese montuoso senza sbocco al mare, hanno dovuto difendere il proprio territorio per secoli e in questo sono divenuti abilissimi.

I sovietici, che fecero l’errore fatale di avviare dei programmi di deislamizzazione, furono battuti dai mujahidin, sostenuti da Pakistan e Stati Uniti. La cacciata dell’esercito con la stella rossa nel 1989 diede alla testa ai comandanti, che iniziarono a combattere tra loro per il potere e a massacrare la popolazione. Kabul fu bombardata per due anni, fino alla presa del potere da parte dei Talebani nel 1996. Il Mullah Omar, che prometteva stabilità e giustizia, fondò un emirato che superava in integralismo ogni regime passato. Cominciarono a circolare le immagini delle decapitazioni, delle punizioni corporali, delle frustate alle donne sospettate di aver trasgredito il rigido codice talebano. Codice legato non tanto all’Islam classico, quanto ad una sua interpretazione in cui confluiscono echi delle tradizioni dell’etnia egemone in Afghanistan: i pashtun. Ma l’Occidente allora si indignava, condannava, ma nello stesso tempo sosteneva il Pakistan, che a livello di egemonia sul paese aveva preso il posto dell’URSS.

Il cambiamento di prospettiva avvenne dopo l’11 settembre 2001, quando gli USA atterriti dall’attentato alle Torri gemelle e al Pentagono puntarono il dito su Al Qaeda e il suo carismatico leader Osama bin Laden, di stanza, appunto, in Afghanistan. La “Patria della democrazia” votò in fretta e furia una legge, il Patrot Act, che contraddiceva le basi del diritto. Un voto bipartisan, che sanciva la creazione di luoghi di detenzione extraterritoriali, ove i prigionieri potevano essere trattenuti a tempo indeterminato senza processo. Ove si potevano utilizzare metodi “alternativi” per ottenere confessioni significative. In poche parole si tornava ai metodi dell’inquisizione su scala globale, ma in nome della difesa della civiltà. Gli Stati Uniti e i loro alleati invasero in breve lo stato cuscinetto afghano, scacciando i barbuti studenti coranici.

Per noi, le Ong, la società civile, il movimento pacifista, si creava una situazione incresciosa, in quanto in nome dei buoni propositi sui diritti umani, si era scatenata una tempesta militare su scala planetaria. Infatti all’Afghanistan seguì l’invasione dell’Iraq, nel decennio successivo l’intervento in Siria, quindi quello in Libia, con il risultato di destabilizzare l’intero Medioriente.

Di fronte alla devastazione di paesi inermi ad opera delle grandi coalizioni, la voce pacifista aveva poca presa. A Kabul si bruciavano in piazza i burka, strumenti di repressione millenaria della donna e si declamava la liberazione del popolo afghano. In realtà l’idea di pilotare la nascita di una nazione era sbagliata dalle fondamenta. In Afghanistan si optò per un governo centralizzato in un paese fortemente diviso su base etnica, togliendo potere ai governi regionali. Si trattava di un’occupazione militare edulcorata da pretese umanitarie. E qui forse la voce delle ONG e del movimento pacifista si fece sentire poco, strangolata dalla contraddizione di realizzare progetti umanitari –con l’eccezione di Emergency e dei pochi che erano già presenti- a fronte di una campagna militare.

Dopo il Vietnam le potenze egemoni hanno cercato di trovare una via per limitare al massimo le perdite, facendo guerre per procura, oppure utilizzando massicciamente i bombardamenti. Presto ci si rese conto che i Talebani erano stati accolti dai loro mentori pakistani nelle cosiddette “aree tribali” al confine con l’Afghanistan e da lì continuavano a operare. In Pakistan era inoltre rifugiato Bin Laden, il più illustre dei ricercati, che lì rimase fino alla pasticciata operazione militare realizzata dagli USA nel 2011, che portò alla sua eliminazione.

È indicativo come il Presidente Kharzai al termine del suo secondo mandato denunciò la serie infinita di “danni collaterali” provocati dalle azioni aeree degli americani. Le “bombe intelligenti” esistono solo nelle fantasie dei militari. Gli afghani denunciarono decine di eccidi di civili – alcuni avvenuti durante banchetti di nozze – dovuti ai bombardamenti. Nel frattempo il territorio afghano era stato suddiviso tra le potenze alleate sotto comando USA. Gli Italiani giunsero ad Herat nel 2002, realizzando l’imponente base di Camp Arena, smobilitata il mese scorso, e spendendo inutilmente 8 miliardi di Euro in quasi 20 anni di presidio.

Dopo 42 anni di guerra e di false speranze, la presa di Kabul e l’assalto – come a Saigon nel 1974- all’aeroporto da parte dei civili terrorizzati confermano due verità che sono sotto gli occhi di tutti: in primo luogo che la democrazia non si può esportare con le missioni militari. D’altro lato che i talebani non sono mai stati sconfitti, ma marginalizzati e progressivamente rafforzati dagli errori della coalizione e del governo centrale. Due verità che si sono palesate negli ultimi giorni, quando i fatti sul campo hanno sconfessato le più pessimistiche previsioni degli analisti militari. I talebani hanno marciato verso Kabul e i capoluoghi dei governatorati incontrando una resistenza minima. La Repubblica islamica si è sciolta come neve al sole.

È triste ritrovarsi profeti di sventura, ma gli sviluppi in Afghanistan dimostrano che il fine non giustifica affatto i mezzi. Dimostra d’altro lato che finalità e metodi della cooperazione allo sviluppo non possono essere complementari all’intervento militare, quanto debbano essere a questo alternativi. Ne consegue che ora diviene fondamentale garantire la prosecuzione delle attività umanitarie delle ONG in Afghanistan, puntando ad una convivenza con il nuovo regime e al modello definito da Emergency a partire dagli anni ’90. Un secondo problema riguarda il personale locale che ha collaborato con la cooperazione e che ora si trova in una situazione di reale pericolo.

Vento di terra, presente nel paese dal 2014 con progetti rivolti in particolare alle donne, ha lanciato un appello lo scorso luglio, cui hanno aderito le ONG italiane che hanno o stanno operando in Afghanistan. Si chiede al Governo italiano di destinare parte della somma risparmiata con il ritiro del contingente a progetti umanitari e d’altro lato di aprire le liste degli operatori afghani che si trovano in situazione di rischio al personale che ha collaborato con le ONG.

Un primo risultato tangibile è stato raggiunto la scorsa notte grazie all’impegno del gruppo di lavoro, al coinvolgimento diretto dei Ministeri degli Esteri e della Difesa e all’azione della deputata Lia Quartapelle. Su indicazione delle ONG è stata compilata una lista di nominativi ed attendiamo che nelle prossime ore il personale delle ONG venga evacuato, come sta avvenendo in queste ore per il personale italiano.