Kabul, dagli occhi dei profughi

Kabul, dagli occhi dei profughi

I profughi afghani sono stati distribuiti nei vari centri di accoglienza, passando senza soluzione di continuità dall’inferno dell’aeroporto di Kabul alle incipriate città italiane. Sono nuclei di quattro, cinque persone, spesso con bimbi molto piccoli. Abbiamo seguito i nostri gruppi nelle valli del Piemonte e dell’Abruzzo, ove sono stati inviati temporaneamente. Appaiono inebriati da tanta bellezza e tranquillità, che contrastano con quanto vissuto nell’ultimo mese. Molte donne sono segnate intimamente e faticano ad uscire dal silenzio. Solo alcuni hanno imparato qualche parola di italiano e iniziano a fantasticare su quale potrà essere il loro futuro in un paese tanto diverso da quello di origine. I loro sogni sono tuttavia popolati dalle immagini della calca, delle ore di agonia nell’orribile corridoio dell’aeroporto, quel luogo che solo poche ore dopo si sarebbe trasformato in un lago di sangue.

A una settimana dall’evacuazione i visi dei profughi afghani appaiono ancora increduli d’essere riusciti ad uscire dall’incubo. Brandelli della loro esperienza tornano alla coscienza come legname dopo un naufragio: “Mentre risalivo il canale con mio figlio sulle spalle, sono inciampato nel cadavere di un bambino”. “Durante la prima notte, la pressione delle persone in fila dietro di noi, si è fatta tanto forte, che il mio Alì di otto anni stava soffocando”. “La mattina abbiamo cercato di riposarci dall’altra parte del canale, ma i soldati inglesi ci hanno respinto senza pietà”. Poi un accenno di sorriso: “All’alba del secondo giorno, in un silenzio surreale, quando avevamo perso la speranza, è arrivata la salvezza”.

PH: Filippo Rossi